Se credi di poter fare qualcosa, lo farai: il potere delle credenze

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Il successo o il fallimento cominciano dalle nostre credenze: se credi di poter fare qualcosa lo farai, se non ci credi non ne sarai capace.  Anche se possiedi le abilità e le risorse, ma dici a te stesso che non puoi, blocchi i sentieri neurologici capaci di renderlo possibile.  Se, invece, dici a te stesso che quel qualcosa puoi farlo, ecco che spalanchi le  strade che ti forniscono le risorse necessarie per la realizzazione. 

Cosa faresti se sapessi di non poter fallire? Se fossi assolutamente certo del successo? Quali azioni compiresti? Spesso è proprio la convinzione di non potercela fare ad essere di ostacolo alla realizzazione dei nostri obiettivi. Posso credere di non essere all’altezza, di non avere le risorse necessarie, di non potercela fare. Se ho alla base queste credenze non farò nulla di concreto per realizzare i miei obiettivi, ed è proprio questo che mi allontanerà da loro. Non saranno le risorse che non ho, o la sfortuna, ma sarà il mio non fare.

Cosa fare, quindi, per raggiungere i propri obiettivi?

  • Fai una lista dei tuoi obiettivi, dei tuoi sogni. Siediti, prendi carta e penna e inizia a scriverli.
  • Ripercorri l’elenco calcolando quanto tempo, secondo te, ti occorrerà per  raggiungere quei risultati (se gli obiettivi sono a lungo termine occorrerà procedere per fasi).
  • Scegli l’obiettivo più importante
  • E’ un obiettivo concreto? Cosa sperimenterai quando lo avrai raggiunto?
  • Stendi un elenco delle risorse  che hai a disposizione: tratti caratteriali, amici, risorse finanziarie, istruzione, tempo, energia, ecc; in modo da avere a disposizione un inventario delle forze, abilità, risorse e strumenti che ti aiuteranno a raggiungere il tuo obiettivo.
  • Focalizza l’attenzione su quei momenti della tua vita in cui hai utilizzato queste risorse nel modo più abile: in quelle esperienze passate cosa vi ha assicurato la riuscita, quale risorsa è stata più efficace e cosa in quella situazione vi ha dato la garanzia del successo? Esplorate situazioni passate di successo per capire come poter utilizzare quelle stesse risorse, o altre, nel momento presente.
  • Che tipo di persona vorrei essere per raggiungere i miei obiettivi? Ad esempio mi occorrerà disciplina, o istruzione, o organizzazione del tempo… cercate di capire di cosa avete bisogno.
  • Cosa ti impedisce di ottenere ciò che desideri? Dopo aver analizzato le risorse cerchiamo di capire quali sono gli ostacoli al raggiungimento dei nostri obiettivi.
  • Cosa devo fare di concreto per raggiungere i miei obiettivi? Se c’è qualcosa che mi impedisce di raggiungerlo, cosa posso fare per cambiare la situazione?

Ed ora non vi resta che mettere in pratica questi punti e mirare a realizzare i vostri obiettivi.

Tratto da: “Come ottenere il meglio da sé e dagli altri” di Anthony Robbins

Dott.ssa Valentina Melilli

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Coppia e aspettative: come ci aspettiamo di essere amati dall’altro

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Nei rapporti si crea una dinamica interessante. All’inizio, nello stadio del corteggiamento, siamo attivamente impegnati: dimostriamo, parliamo, tocchiamo. Con l’andare del tempo non siamo impegnati nello stesso modo. Ci sentiamo a nostro agio nel rapporto, sappiamo che quella persona ci ama e che noi l’amiamo. E allora, come comunichiamo a essa i nostri sentimenti d’amore? Probabilmente allo stesso modo in cui vorremmo che ce li comunicasse a sua volta, secondo ciò che per noi rappresenta il “dimostrare”amore. Ma non è detto che questo sia il modo dell’altro…

Le persone si dividono in tre categorie:

  • quelle visive, che prediligono la vista e le immagini,
  • quelle uditive, che prediligono il senso dell’udito e l’ascolto,
  • quelle cinestesiche, che prediligono le sensazioni corporee, tattili e percettive.

Pensiamo ad un marito con modalità visiva e una moglie con modalità uditiva: lui mostra a lei di amarla regalandole oggetti, mandandole fiori, ma lei un bel giorno dice “Non mi ami”. Lui si arrabbia: “Come fai a dirlo?Guarda la casa che ho acquistato, i regali che ti faccio”. E lei replica: “Si, ma mai una volta che mi dici che mi ami!”. “Ma io ti amo”, urla a questo punto il marito con un tono di voce che non corrisponde affatto alla strategia di lei, e la conseguenza è che la moglie non si sente per niente amata. Uno dei due sbaglia? No, semplicemente utilizzano modalità diverse di amare, ciò che per loro corrisponde al dimostrare amore. Ma non è detto che questa modalità corrisponda a quella del partner.

La consapevolezza è uno strumento potente. La maggior parte di noi ritiene che la nostra mappa del mondo corrisponda esattamente al mondo stesso. Ci diciamo: lo so benissimo cosa mi fa sentire amato, e questo deve poter funzionare con chiunque altro. Ma dimentichiamo che la mappa non è un tutt’uno con il territorio, che essa è solo il nostro modo di vedere il territorio.

Che cos’è che fa sentire il vostro partner totalmente amato? E cosa fa sentire voi totalmente amati? Vi siete mai fermati e confrontati su queste due domande? Non dando per scontato che l’altro sappia perfettamente cosa è giusto per voi, ma condividendolo? Provate a partire da qui, scoprirete che è molto più semplice rendere esplicito e comunicare apertamente con l’altro, evitando fraintendimenti e incomprensioni.

 

Dott.ssa Valentina Melilli

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Vivere senza il pilota automatico

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Un aeroplano è controllato da un pilota automatico che guida da solo, utilizzando gli strumenti a disposizione. Il pilota segue semplicemente le sue decisioni. Può mangiare, bere, parlare con le hostess. Il pilota automatico non è consapevole di tutto quello che fa. Lui semplicemente guida e non può prendere decisioni consapevoli. La situazione è diversa da quella del pilota: lui può, in ogni momento, abbassare la leva, cambiare direzione e atterrare sulla giusta pista. 

Quando lasciamo che le nostre vecchie abitudini controllino i nostri comportamenti,  semplicemente lasciamo il pilota automatico inserito. Ma come il pilota, abbiamo sempre la possibilità di cambiare modalità e iniziare ad essere noi stessi, scegliendo la nostra direzione.  Possiamo evitare di farci guidare in modo automatico nelle nostre scelte ed iniziare a scegliere in modo consapevole ciò che è meglio per noi stessi. A volte prendiamo delle decisioni spinti dall’abitudine, senza chiederci veramente se sono le scelte giuste per noi. Come mai sto facendo questa cosa? Gli altri si aspettano da me che mi comporti cosi? Ma è la decisione migliore per me? O lo faccio per abitudine, per non deludere l’altro, per non farmi giudicare? E’ importante riflettere su cosa ci spinge a prendere le decisioni.

Voglio veramente questa cosa o sto seguendo delle vecchie abitudini? Dove voglio andare? Voglio fermarmi, andare avanti? A volte capita che le persone arrivino in terapia per due motivi: il primo è quando c’è un sintomo fisico che li preoccupa; il secondo è perchè per la prima volta nella loro vita si sono fermati e si sono accorti che la loro vita non è proprio quella che vorrebbero, che è arrivato il momento di cambiare qualcosa. 

Il rischio del pilota automatico è sempre dietro l’angolo, presi dal caos quotidiano e dall’andare sempre di fretta. Provate a fare una passeggiata nel parco, guardarvi intorno, attivare i vostri sensi, prestare attenzione al luogo in cui vi trovate e al modo in cui vi sentite. Sono sicura che vi sorprenderà la varietà di dettagli a cui farete caso, come se fosse la prima volta in cui vi trovate in quel posto: suoni, odori, sensazioni, colori…Tutto vi sembrerà nuovo. E provate a pensare a quante cose facciamo distrattamente, perdendoci la possibilità di viverci il momento presente, senza pensare a ciò che ho fatto un attimo prima o a ciò che dovrò fare un attimo dopo. Semplicemente esserci, in questo momento. Vi presento una sfida con voi stessi; provate ad andare al parco, senza telefono, senza musica, da soli, e a passeggiare come se fosse la prima volta che vi trovate li, prestando attenzione ad ogni minimo dettaglio e a come vi sentite. Successivamente, provate a trasportare questa esperienza nella vita quotidiana, dalla colazione, alla chiacchierata con un’amico, alla visione di un film, al guidare in macchina. Provate, in poche parole, a vivere senza il pilota automatico. Come ci si sente?

Dott.ssa Valentina Melilli

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valentina.melilli@libero.it

Il lutto di cui non si parla è un lutto che non guarisce…

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Il lutto è un sentimento di intenso dolore che si prova in seguito ad una perdita.  Può essere una perdita improvvisa, oppure la conclusione di una lunga malattia. I sentimenti che accompagnano il lutto vanno dalla tristezza, all’angoscia per la perdita, ai sensi di colpa, e il modo di reagire può cambiare da persona a persona. Elaborare un lutto o una condizione di sofferenza estrema significa concedersi l’espressione di un sentimento che potrà consentire alla vita di procedere. Se l’espressione di questi sentimenti viene trattenuta, infatti, il flusso della vita subirà tensioni e limitazioni che potranno portare l’individuo verso la depressione. Spesso le persone che vivono un lutto non riescono a trovare un sostegno in chi le circonda: i primi tempi c’è la presenza, ci sono le domande, viene dimostrato interesse…Man mano che il tempo passa la persona rischia di trovarsi a gestire da sola il proprio dolore. O potrebbe essere proprio la persona stessa a non voler condividere i propri sentimenti, il proprio dolore E’ importante partire dal presupposto che un lutto di cui non si parla è un lutto che non guarisce…Il tempo passa, la vita continua, ma ciò che non viene elaborato rimane li, non evolve se non viene affrontato in prima persona. 

Quali sono, allora, gli obiettivi del lavoro del lutto?

  • Accettazione della realtà della perdita: confrontarsi con la realtà della perdita e superare la normale tendenza a negare  l’evento morte;
  • Elaborazione del dolore del lutto: sperimentare il dolore e i sentimenti di depressione, isolamento, vuoto, legati alla perdita della persona cara;
  • Adattamento ad una realtà nella quale la persona cara non c’è più: sviluppare nuove capacità per adattarsi ai nuovi ruoli, al nuovo senso di se e del mondo;
  • Dare un nuovo spazio alla persona persa e proseguire nel proprio percorso di vita: trovare un luogo nella propria vita interiore in cui il proprio caro sia presente.

A seconda dell’età in cui avviene il lutto e la perdita, vi sono differenti conseguenze e differenti modalità di intervento. Quel che accomuna l’essere umano rispetto al vissuto della morte è il sostegno di cui necessita: dalla famiglia come fonte di riferimento, dalla società, da professionisti esperti. L’ambiente svolge un ruolo indispensabile nella ristrutturazione del benessere personale. Poter fare riferimento ad un ambiente, sia esso familiare o sociale,  positivo e propositivo, che favorisce la libera espressione delle emozioni, permette alla persona che ha subito la perdita di sentirsi accolto, ascoltato e libero di avere il “suo tempo” per ritornare ad una quotidianità rielaborata.

Dott.ssa Valentina Melilli

Psicoterapeuta ad approccio strategico integrato

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valentina.melilli@libero.it

 

Come riconoscere la fame e il senso di sazietà

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Nasciamo tutti con la capacità innata di valutare il nostro grado di fame. Proviamo ad osservare i bambini: loro sanno cosa significa. Non puoi dare ad un bambino più del cibo che ti richiede: lui scuote la testa in modo determinato se non vuole più mangiare, o al contrario piange o si agita quando ha fame e vuole mangiare. Se i bambini non avessero questa capacità innata non sopravvivrebbero a lungo. Da 0 a 3 anni i bambini possiedono questa “saggezza innata” nel riconoscere il loro livello di fame e sazietà. Dopo i tre anni, i condizionamenti ambientali, le abitudini, lo stile educativo, il contesto, iniziano ad agire su questa innata capacità del bambino, fino a modificarla. Nel corso della vita la nostra capacità di cogliere i segnali che il corpo ci manda cambia, diventa più difficile da seguire. Il mondo ci insegna a mangiare anche quando non abbiamo fame, allontanandoci dalla nostra innata saggezza. Lo impariamo dalla tv, dai genitori (“potrai mangiare il dolce solo se finisci la carne che hai nel piatto), e da adulti continuiamo poi su questa scia. Probabilmente a tutti sarà capitato almeno una volta di mangiare solo per una questione sociale anche se non si aveva fame, o fare il bis di qualcosa ad una festa anche se si è pieni solo perchè ci è stato offerto e non si può dire no. Allo stesso tempo, le diete incoraggiano ad ignorare il proprio livello di fame. Ci sono diversi tipi e livelli di fame, sentire un leggero appetito è diverso dall’essere affamato. Imparare a riconoscere il proprio livello di  fame aiuterà a comprendere realmente come prendersi cura di se stessi.

Provate ad utilizzare la scala della consapevolezza della fame per stabilire qual’è il vostro livello. Si potrebbe iniziare ad insegnare alla mente a rispondere ai bisogni del corpo, piuttosto che ai suoi desideri. Iniziare a mangiare quando si ha un livello medio di fame evita di farci approcciare al cibo in modo famelico e vorace, divorando il pasto in breve tempo e mettendo sotto i denti la prima cosa che ci capita a portata di mano. Un espediente potrebbe essere quello di attaccare la scala della fame sull’anta della dispensa o nel frigorifero in modo da decidere cosa mangiare in base al proprio livello di appetito.

Quali segnali il corpo invia quando abbiamo fame? Mal di testa, stomaco che brontola, nausea? E’ importante ascoltare questi segnali per rispondervi nel modo giusto. 

Nel corso della giornata provate a fare un check in del vostro livello di fame: quanta fame ho? Che segnali mi sta inviando il mio corpo? Mentre mangiate provate a farlo in modo attento e consapevole, evitando di fare più cose contemporaneamente (come guardare la tv o il cellulare), ma prestando piena attenzione a ciò che state facendo, a come vi sentite: sto gustando il cibo che ho nel piatto? Come mi sento? Mi sento in dovere di finire tutto ciò che ho nel piatto oppure mi ascolto e mi fermo nel momento in cui mi sento sazia? Sono soddisfatta di ciò che sto mangiando?

Questi piccoli esercizi e queste domande vi aiuteranno nell’acquisire consapevolezza nei momenti dei pasti. Forse all’inizio potrà risultare difficile, ma noterete ben presto come il mangiare sia diventato un gesto automatico più che un momento nutriente e gratificante. Facciamo in modo che non sia cosi.

Per informazioni sulla mindful eating (alimentazione consapevole):

Dott.ssa Valentina Melilli

Psicoterapeuta ad approccio strategico integrato

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